Il commercio internazionale riveste un ruolo fondamentale per l’economia italiana.

L’Italia è il sesto Paese al mondo per volumi di esportazioni, confermando anche una forte propensione per le importazioni, relativamente alle quali si colloca all’ottavo posto nella classifica degli scambi mondiali.

Negli ultimi anni, il settore dell’import-export è stato interessato da numerosi cambiamenti. I nuovi scenari geopolitici, la lotta all’inquinamento, la necessità di ricercare nuove opportunità commerciali, proteggendo al tempo stesso il mercato interno, hanno portato l’Unione europea ad adottare diverse normative. La materia, considerata troppo tecnica, è trattata solo marginalmente nella discussione pubblica e raramente approda all’attenzione dei media e delle strategie aziendali. In questo scenario, il crescente numero di aziende che opera oltre confine rappresenta, insieme alle radicali trasformazioni del commerciale mondiale, la ragione che ha spinto Arcom Formazione a organizzare un’occasione di approfondimento e di confronto quale il Forum del commercio internazionale, che ha coinvolto più di 500 partecipanti, tra doganalisti, aziende e rappresentanti delle istituzioni nazionali ed europee.

Nell’ultimo World Economic Outlook dell’ottobre 2023, il Fondo monetario internazionale (FMI) ha definito con la parola “frammentazione” questa nuova fase caratterizzata da una politica economica di segno opposto all’integrazione, motivata da considerazioni strategiche come la sicurezza nazionale e comprendente misure commerciali, fiscali e finanziarie, tariffe, restrizioni all’esportazione, sussidi e restrizioni nei pagamenti.

A partire dalla crisi finanziaria del 2008, infatti, si assiste a una progressiva inversione di tendenza, con le misure protezionistiche che superano quelle di liberalizzazione degli scambi. È in questa fase che torna a essere centrale la politica, con la guerra dei dazi avviata dall’amministrazione Trump nei confronti dei prodotti made in China, ma che non ha risparmiato gli alleati europei e che si inseriva in un quadro già caratterizzato da numerose restrizioni agli scambi internazionali. Anche il referendum sulla Brexit va nella direzione di un ritorno delle frontiere.

La paralisi degli scambi internazionali nel periodo dell’emergenza Covid-19 ha spinto Governi e imprese a valutare un diverso modello produttivo, dove la Cina non si ponesse più al centro, come “fabbrica del mondo”, specie in settori strategici per la sicurezza nazionale o per la salute della collettività. Il “decoupling” tra l’economia cinese e quella statunitense non si è fermato poi con l’amministrazione Biden, la quale ha mantenuto tutte le barriere all’importazione e ha impresso una spinta al reshoring, con politiche di sussidio economico alla produzione “made in Usa”. Altre barriere agli scambi sono state introdotte dalla Cina, con le restrizioni all’esportazione di terre rare.

I dati pubblicati nel World economic outlook del FMI segnalano che nel 2022 vi è stato un incremento delle misure restrittive del commercio internazionale nel suo complesso, che sono state di 3,5 volte maggiori rispetto al periodo pre pandemico.

Si stima che le misure protezionistiche in vigore nel mondo siano circa 3.000, tra dazi, sanzioni e quote di esportazione: un dato significativo, che evidenzia una nuova tendenza alla deglobalizzazione.

Il multilateralismo ha lasciato il passo al regionalismo, ossia all’affermarsi di politiche di consolidamento di relazioni politiche ed economiche tra alcuni Paesi, escludendo gli altri.

Nel mondo sono in vigore 361 Free Trade Agreements (FTA)[1] , che consentono di beneficiare di esenzioni o riduzioni daziarie. Gli accordi più recenti, c.d. di ultima generazione, non si limitano soltanto alle agevolazioni tariffarie, ma fissano standard tecnici comuni ai Paesi firmatari, i quali rappresentano spesso barriere molto più significative rispetto a quelle economiche, limitando la possibilità di accedere ai mercati interni.

Nei FTA più recenti, inoltre, è dato spazio anche a regole comuni per il settore dei servizi, la proprietà intellettuale, la tutela delle indicazioni geografiche, nonché standard ambientali e di tutela dei lavoratori.

Inoltre, negli ultimi anni lo strumento degli accordi di libero scambio ha assistito a una forte crescita: in base all’analisi della World Trade Organization, non solo è cresciuto il numero, in termini assoluti, di FTA, ma si è assistito anche a un incremento dimensionale particolarmente significativo, al punto che si parla ormai di “epoca dei mega accordi commerciali”. Tra i principali macro accordi si segnalano: il RCEP (Regional comprehensive economic partnership) che interessa circa il 30% del commercio e della popolazione mondiale, l’USMCA (United States-Mexico-Canada Agreement) che coinvolge il 16% del PIL e 500 milioni di

Dati elaborati dal WTO: https://rtais.wto.org/UI/PublicMaintainRTAHome.aspx.

persone, l’Unione europea (anche unione doganale, corrispondente al 22% del Pil mondiale e 450 milioni di persone), il CPTPP (13% del PIL globale e 480 milioni di persone), nonché il Mercosur in Sud America (3% del PIL e 300 milioni di persone).

L’aumento dei FTA e della loro dimensione rende molto più complesso il quadro regolamentare per le imprese: un FTA, infatti, avvia una grande prospettiva di espansione estera, potendo aprire un canale commerciale, in esenzione da dazi o limitazioni, in Paesi che normalmente tassano le importazioni e prevedono restrizioni di varia natura (contingenti daziari, standard tecnici), ma spesso tali vantaggi sono difficili da conseguire, in ragione della complessità applicativa. Per fruire del dazio zero, infatti, è necessario dimostrare che il prodotto ha origine preferenziale, ossia che possa dirsi integralmente realizzato con materiali locali o che abbia subito un’ultima lavorazione sostanziale nel Paese, secondo una serie di regole estremamente tecniche e complesse: per questa ragione, soltanto una parte delle aziende riesce a cogliere tali opportunità, con grandi difficoltà per le piccole e medie imprese.

In conclusione, si rileva come solo recentemente gli scambi internazionali siano condizionati, oltre che dalla politica e dall’economia, anche da considerazioni etiche e ambientali, le quali hanno assunto importanza sia nella politica degli Stati che nelle scelte del settore privato. In questa direzione, l’Unione europea ha da poco approvato una serie di divieti e nuovi dazi, tra cui il CBAM, la plastic tax e le norme sulla deforestazione, utilizzati, da un lato, per ridurre i cambiamenti climatici e proteggere l’ambiente (secondo quanto previsto dall’Accordo di Parigi) e, al contempo, per incentivare il rientro nell’Unione europea di alcune importanti filiere produttive.

Laureata in Giurisprudenza nel 1993, con lode e la dignità di stampa, iscritta all’Ordine degli Avvocati di Genova dal 1996, conseguendo 300/300 all’esame finale, ha esercitato, dal 1993 al 2008, attività professionale con il prof. Victor Uckmar, per il quale ha svolto per diversi anni attività di ricerca e didattica in diritto tributario presso l’Università di Genova

Nel 2008 ha fondato lo Studio Armella & Associati, con sedi in Milano e Genova, indicato dalla rivista Forbes tra “Le 100 eccellenze del legal in Italia” e dalla rivista Top legal tra i migliori studi di diritto tributario. Lo Studio è tra i fondatori e unico membro italiano di Green lane, associazione internazionale di studi professionali indipendenti, specializzata in dogane e diritto del commercio internazionale

Membro della Commissione di esperti in materia doganale, nominata dal Vice Ministro delle finanze on.le Maurizio Leo per l’attuazione della riforma fiscale (decreto n. 99/2023)

Presidente della Commissione Dogane & trade facilitation della Sezione Italiana della International Chamber of Commerce e delegato italiano presso la Commission on Customs and trade facilitation della ICC di Parigi

Docente di diritto doganale presso Università Bocconi, Università Statale di Milano e La Sapienza di Roma in Master e Corsi post universitari, professore a contratto presso ICE