Annullata la sanzione sul “Made in” se l’errore è del fornitore estero. La Corte di Cassazione ha chiarito che la società importatrice non incorre nell’illecito amministrativo previsto dall’art. 4, comma 49 bis, della legge n. 350 del 1993 se ha agito con diligenza, specificando che la merce dovesse essere etichettata con “Made in China” (Cass., sez. II, 22 ottobre 2025, n. 28041).

Una decisione che segna un punto di svolta nella disciplina sanzionatoria applicabile in materia di tutela del “Made in Italy”. La pronuncia conferma un orientamento volto a valorizzare il comportamento diligente dell’importatore e a circoscrivere la responsabilità solo ai casi in cui sia dimostrabile la colpa dell’operatore, riconoscendo il rilievo dell’errore del fornitore estero (caso fortuito) e del legittimo affidamento nel corretto adempimento da parte dell’esportatore.

Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, la Camera di commercio aveva emesso una sanzione di 22.500 euro nei confronti di una società italiana che aveva importato prodotti privi di una chiara indicazione dell’origine. L’assenza di un’etichetta “Made in China” avrebbe potuto indurre in errore il consumatore sull’effettiva provenienza della merce.

La società importatrice si era opposta alla sanzione, dimostrando di aver richiesto per iscritto al proprio fornitore cinese di apporre la corretta etichettatura sulla merce prima della spedizione, agendo quindi in buona fede e senza colpa.

In primo grado, il Tribunale di Civitavecchia ha rigettato l’opposizione proposta dalla società, confermando la sanzione irrogata. La Corte d’Appello di Roma, invece, ha riformato la decisione, rilevando che, l’azienda aveva agito in buona fede e non era nelle condizioni oggettive di verificare la merce prima che venisse sdoganata. Il rapporto commerciale consolidato con il fornitore, inoltre, rendeva legittimo l’affidamento maturato sulla corretta esecuzione dell’ordine.

La Camera di Commercio ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che la società importatrice avrebbe potuto e dovuto verificare la merce prima dello sdoganamento, avvalendosi delle procedure doganali esistenti. Ad avviso della Camera di Commercio, sarebbe stato possibile verificare la merce sia prima della partenza dalla Cina che al suo arrivo, prima dello sdoganamento, anche in considerazione della rilevanza dell’ordine.

La Corte di Cassazione ha però riconosciuto che la società aveva agito con la massima diligenza, avendo chiesto per iscritto al proprio partner commerciale cinese di apporre l’etichetta “Made in China”. Per l’applicazione di una sanzione amministrativa, secondo la Legge n. 689/1981, è necessario che la violazione sia commessa almeno con colpa. Nel caso di specie, la società importatrice aveva dimostrato di aver operato con diligenza fornendo delle istruzioni scritte al fornitore.

I giudici di legittimità precisano che l’importatore non è tenuto a essere presente al momento della spedizione né ad aprire i colli prima dello sdoganamento, poiché l’operazione è eseguita tramite uno spedizioniere doganale. L’errore del fornitore, dunque, rientra nelle ipotesi di caso fortuito, quale evento “imprevisto e imprevedibile”, che esclude l’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo e interrompe il nesso di causalità, facendo venir meno la responsabilità dell’importatore.

La Corte di Cassazione ha sottolineato, inoltre, che le informazioni sull’origine estera del prodotto possono essere fornite anche nella fase di commercializzazione, in conformità alla stessa norma sanzionatoria, la quale consente al titolare o licenziatario del marchio di accompagnare la merce con un’attestazione idonea a chiarire la reale provenienza dei beni.

La normativa richiamata dalla Camera di Commercio (art. 58 del d.P.R. n. 43/1973, vigente all’epoca dei fatti contestati), che consente la verifica delle merci in dogana, è finalizzata a garantire l’accuratezza della dichiarazione doganale in termini di qualità, quantità e valore, e non a verificare la conformità dell’etichettatura, la quale è disciplinata per la tutela del consumatore e risponde a un obiettivo diverso, come previsto dall’art. 4, comma 49-bis, della L. 350/2003.

L’illecito amministrativo previsto dall’art. 4, comma 49-bis, della L. n. 350 del 2003 riguarda l’illecito uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, qualora lo stesso avvenga con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana per l’assenza di precise indicazioni sulla esatta provenienza o della dichiarazione di impegno a rendere tali informazioni in fase di commercializzazione, a trarre in inganno anche un consumatore esperto sull’effettiva origine del prodotto. In sostanza, la norma punisce l’uso di marchi di aziende italiane che potevano indurre in inganno il consumatore su prodotti o merci non originari dell’Italia senza l’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del Paese o del luogo di fabbricazione o di produzione (Cass. pen., Sez. III, Sentenza, 06/11/2014, n. 52029).

Nel caso in esame, non c’era l’intento di far passare la merce per “Made in Italy”, ma c’era un’assenza totale di indicazione sulla provenienza del prodotto. Inoltre, la merce non era ancora stata immessa in commercio, pertanto ai sensi della normativa l’importatore poteva ancora correggere la situazione prima che il prodotto venisse venduto, mediante una dichiarazione riportante le informazioni corrette sull’origine del prodotto.

Con questa ordinanza la Corte di Cassazione fornisce un importante chiarimento per le aziende: è fondamentale operare con diligenza e tutelarsi attraverso una documentazione contrattuale e commerciale ineccepibile, è necessario conservare le prove documentali delle direttive impartite ai fornitori esteri in materia di etichettatura in modo tale da poterlo dimostrare in caso di contenzioso.  In questo modo gli operatori possono provare l’assenza dell’elemento soggettivo della colpa, indispensabile per configurare l’illecito amministrativo.

Laureato presso l’Università di Parma, ha conseguito un Master in Diritto Tributario e un Master di specializzazione dall’accertamento al processo tributario presso la Scuola di Formazione Ipsoa. È iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano dal 2009. Nel 2011 entra nel team dello Studio Armella & Associati, di cui è socio dal gennaio 2020.

Settori di attività: contenzioso doganale, diritto tributario e commercio internazionale. Esperto di diritto doganale, con particolare riferimento alle tecniche di commercio internazionale, assiste grandi aziende e multinazionali con particolare riferimento alla consulenza e alla pianificazione doganale, all’implementazione delle procedure relative al commercio internazionale e alle certificazioni AEO.

È autore di numerosi articoli e pubblicazioni e collabora con associazioni di categoria in attività seminariali e congressuali.

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Genova, ha frequentato il corso di perfezionamento in Diritto Tributario presso l’Università di Genova e il Master in Diritto Tributario presso l’Università Cattolica di Milano.

Iscritto all’Ordine degli Avvocati di Genova, dopo una lunga esperienza presso un noto studio legale specializzato in fiscalità indiretta, dal 2019 entra a far parte del team dello Studio Armella & Associati.

È autore di numerosi articoli e svolge attività di docenza in seminari e corsi di formazione in materia tributaria.

È membro del gruppo di lavoro Accise della Sezione Italiana della International Chamber of Commerce.