Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione IX, sentenza 18/1/2024, causa C-791/22 – Pres. e Rel. Spineanu-Matei – G.A. c/ Hauptzollamt Braunschweig

Direttiva 2006/112/CE – Articolo 30, primo comma – Articolo 60 – Articolo 71, paragrafo 1 – Luogo delle operazioni imponibili – Beni introdotti nel territorio doganale dell’Unione europea in un primo Stato membro in violazione delle norme doganali e trasportati in seguito in un secondo Stato membro – Luogo in cui sorge l’IVA all’importazione – Disposizione nazionale che rinvia alla normativa doganale dell’Unione – Illegittimità

L’articolo 30, primo comma, l’articolo 60 e l’articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale l’articolo 215, paragrafo 4, del codice doganale comunitario del 1992, di cui al Regolamento n. 2913/1992, come modificato dal regolamento (CE) n. 2700/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2000, si applica per analogia all’imposta sul valore aggiunto (IVA) all’importazione per quanto riguarda la determinazione del luogo in cui sorge tale IVA all’importazione. 

G.A., residente in Polonia, il 29/9/2012 acquistava in un mercato di tale Stato Membro un totale di 43 760 sigarette sulla cui confezione erano apposti unicamente contrassegni fiscali ucraini e bielorussi. Senza informarne le autorità doganali, egli trasportava tali sigarette nella regione di Braunschweig (Germania), dove il 2/10/2012 le consegnava ad un acquirente tedesco. Poiché G.A. veniva arrestato, le sigarette erano sequestrate e successivamente distrutte.

Ritenendo che le sigarette fossero state introdotte irregolarmente nel territorio doganale dell’Unione, l’Ufficio doganale principale di Braunschweig riteneva sorta un’obbligazione doganale, conformemente all’articolo 202, paragrafo 1, lettera a), del codice doganale comunitario del 1992 (vigente all’epoca dei fatti) e che G.A. ne fosse il debitore sul fondamento dell’articolo 202, paragrafo 3, terzo trattino, di tale codice. Lo stesso ufficio riteneva inoltre che, conformemente all’articolo 21, paragrafo 2, della legge tedesca relativa all’imposta sulla cifra d’affari, l’IVA all’importazione fosse sorta in Germania, prevedendo tale articolo che all’IVA all’importazione si applicano le disposizioni in tema di dazi doganali. Di conseguenza, esso emetteva un avviso di accertamento, che G.A. impugnava dinanzi al Tribunale tributario di Amburgo.

Dato che la controversia di cui il Giudice tedesco era investito verteva, in particolare, sulla questione se l’IVA all’importazione controversa fosse sorta in Germania oppure no, tale giudice riteneva opportuno investire la Corte di Giustizia dell’Unione europea di una questione pregiudiziale, volta a chiarire se, in sostanza, l’articolo 30, primo comma, l’articolo 60 e l’articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112 dovessero essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale in forza della quale l’articolo 215, paragrafo 4, del codice doganale si applica per analogia all’IVA all’importazione per quanto riguarda la determinazione del luogo in cui sorge tale IVA all’importazione.

Il Giudice del rinvio ha considerato infatti che il luogo di importazione delle sigarette era situato in Polonia, dal momento che queste ultime sono entrate nel circuito economico dell’Unione nel territorio di tale Stato membro, ma l’articolo 21, paragrafo 2, della legge tedesca relativa all’imposta sulla cifra d’affari rende applicabile, per analogia, l’articolo 215, paragrafo 4, del codice doganale comunitario allora vigente, ai sensi del quale se l’importo dell’obbligazione doganale è inferiore a 5 000 EUR, essa si considera sorta nello Stato membro in cui è avvenuta la constatazione.

Tale disposizione è apparsa al Giudice del rinvio in contrasto con la direttiva 2006/112 in materia di IVA: infatti, il rinvio alla normativa doganale operato dall’articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112 non riguarda il luogo in cui sorge l’obbligazione a titolo di IVA: da un lato, tale disposizione non farebbe riferimento alla normativa doganale per tutte le condizioni per il sorgere dell’IVA; dall’altro lato, il luogo di importazione sarebbe preso in considerazione dagli articoli 60 e 61 della direttiva 2006/112 per determinare il luogo delle operazioni imponibili ai fini dell’IVA.

Nel rispondere nel senso di cui alla massima, la Corte ha osservato che, per quanto riguarda l’importazione di beni, l’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2006/112 dispone che essa costituisce un’operazione soggetta all’IVA. L’articolo 30, primo comma, di tale direttiva definisce l’importazione di beni come l’introduzione nell’Unione di un bene che non è in libera pratica ai sensi dell’articolo 29 TFUE.

L’articolo 60 di detta direttiva prevede che l’importazione è effettuata nello Stato membro nel cui territorio si trova il bene nel momento in cui entra nell’Unione.

Ai sensi dell’articolo 70 della medesima direttiva, il fatto generatore dell’IVA si verifica e l’imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata l’importazione di beni.

Tuttavia, conformemente all’articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112, quando i beni importati sono assoggettati, in particolare, a dazi doganali, il fatto generatore si verifica e l’IVA diventa esigibile nel momento in cui scattano il fatto generatore e l’esigibilità dei predetti dazi o prelievi.

La Corte ha rilevato che, in base alla propria giurisprudenza, detto articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112 autorizza gli Stati membri a collegare il fatto generatore e l’esigibilità dell’IVA all’importazione a quelli dei dazi doganali. Tale collegamento si spiega con il fatto che l’IVA all’importazione e i dazi doganali presentano caratteristiche essenziali comparabili in quanto essi traggono origine dal fatto dell’importazione nell’Unione e della susseguente introduzione delle merci nel circuito economico degli Stati membri.

Al fine di determinare il collegamento tra la normativa doganale e quella relativa all’IVA, previsto all’articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112, in particolare, al fine di stabilire se esso riguardi anche il luogo di importazione dei beni soggetti all’IVA all’importazione, la Corte ha dunque concluso nel senso della necessità di esaminare la portata del rinvio operato da tale disposizione alla normativa doganale.

Al riguardo, la formulazione dell’articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112 fa riferimento solo al momento in cui scattano il fatto generatore e l’esigibilità dell’IVA. Tale disposizione non prevede alcun rinvio alla normativa doganale per quanto riguarda il luogo dell’importazione.

Secondo un’interpretazione letterale, il rinvio alla normativa doganale riguarda quindi soltanto la determinazione del momento del fatto generatore e dell’esigibilità dell’IVA, e non la determinazione del luogo di importazione.

Dall’altro lato, per quanto riguarda il contesto in cui si inserisce l’articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112, occorre rilevare che tale disposizione fa parte del titolo VI di detta direttiva, che riguarda il “[f]atto generatore [e l’]esigibilità dell’imposta”. Per contro, l’articolo 60 di detta direttiva figura nel titolo V della medesima direttiva, il quale è specificamente dedicato al “[l]uogo delle operazioni imponibili” e, più specificamente, nel capo 4 di tale titolo, intitolato “Luogo delle importazioni di beni”.

Dall’insieme di tali elementi risulta che l’articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112 deve essere interpretato nel senso che esso non stabilisce un collegamento generico tra la direttiva 2006/112 e il codice doganale e, in particolare, non determina il luogo di importazione dei beni ai fini del loro assoggettamento all’IVA.

Tale interpretazione è avvalorata dalla giurisprudenza della Corte.

È vero che quest’ultima ha considerato che, tenuto conto del parallelismo tra l’IVA all’importazione e i dazi doganali, confermato dall’articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112, un’obbligazione a titolo di IVA può aggiungersi all’obbligazione doganale qualora il comportamento illecito che ha generato quest’ultima permetta di presumere che le merci in questione sono entrate nel circuito economico dell’Unione e hanno potuto essere oggetto di consumo, determinando così il realizzarsi del fatto generatore dell’IVA; tuttavia, detta presunzione può essere rovesciata se viene dimostrato che, malgrado le violazioni della normativa doganale, che determinano la nascita di un’obbligazione doganale all’importazione nello Stato membro in cui tali violazioni sono state commesse, un bene è stato introdotto nel circuito economico dell’Unione nel territorio di un altro Stato membro, nel quale tale bene era destinato al consumo. In questo caso, il fatto generatore dell’IVA all’importazione si verifica in tale altro Stato membro.

Infine, occorre sottolineare l’interesse del principio di territorialità fiscale applicabile all’IVA. Infatti, contrariamente ai dazi doganali, che spettano all’Unione qualunque sia lo Stato membro che li riscuote, gli introiti connessi all’IVA all’importazione appartengono, conformemente a tale principio, allo Stato membro in cui ha luogo il consumo finale.

La Corte ha pertanto affermato il principio di cui in massima, altresì rilevando che, nel caso di specie, le sigarette di cui trattasi erano entrate nel circuito economico dell’Unione in Polonia ed erano destinate al consumo in tale Stato membro: pertanto, alla luce della propria giurisprudenza, la Corte ritiene che il luogo in cui è sorta l’IVA all’importazione su tali sigarette sia la Polonia.

La determinazione del luogo dell’importazione di un bene mediante l’applicazione, non già delle disposizioni della direttiva 2006/112, bensì, per analogia, dell’articolo 215, paragrafo 4, del codice doganale implicherebbe che, in un caso del genere, gli introiti connessi all’IVA all’importazione spetterebbero allo Stato membro in cui è avvenuta la constatazione del sorgere dell’obbligazione doganale in forza della finzione giuridica stabilita da tale disposizione, vale a dire la Repubblica federale di Germania, il che sarebbe contrario alla portata del principio di territorialità fiscale in materia di IVA.

A tale riguardo, la Corte ha anche sottolineato che, se il giudice del rinvio constatasse che le sigarette di cui trattasi erano destinate al consumo in Polonia, l’autorità tedesca competente sarebbe tenuta a trasmettere, senza preventiva richiesta, le informazioni relative al sequestro di tali sigarette all’autorità polacca competente, in applicazione dell’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento (UE) n. 904/2010 del Consiglio, del 7 ottobre 2010, relativo alla cooperazione amministrativa e alla lotta contro la frode in materia d’imposta sul valore aggiunto, al fine, in particolare, di evitare un rischio di perdita di gettito fiscale in tale altro Stato membro.

Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione IV, sentenza 23/11/2023, causa C-653/22 – Pres. e Rel. Lycourgos – J.P. Mali Kerékpárgyártó és Forgalmazó Kft. c/ Nemzeti Adó-és Vámhivatal Fellebbviteli Igazgatósága

Unione doganale – Regolamento (UE) n. 952/2013 – Articolo 42, paragrafo 1 – Obbligo per gli Stati membri di prevedere sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive per le violazioni della normativa doganale – Dichiarazione inesatta del paese d’origine delle merci importate – Normativa nazionale che prevede un’ammenda pari al 50% della perdita di entrate derivanti dai dazi doganali – Principio di proporzionalità – Sussiste

L’articolo 42, paragrafo 1, del regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, che istituisce il codice doganale dell’Unione, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che prevede, in caso di perdita di entrate provenienti dai dazi doganali causata dalla fornitura di informazioni inesatte in una dichiarazione in dogana relativa a merci importate nell’Unione europea, un’ammenda amministrativa corrispondente, in linea di principio, al 50% di tale perdita di entrate e applicata nonostante la buona fede dell’operatore interessato e le precauzioni da quest’ultimo adottate, allorché tale aliquota del 50% è nettamente inferiore a quella prevista in caso di malafede di tale operatore ed è, inoltre, notevolmente ridotta in alcune situazioni precisate in tale normativa, tra cui quella in cui l’operatore in buona fede rettifica la sua dichiarazione in dogana prima della conclusione del controllo a posteriori.

Nel 2017 e nel 2018 la società ungherese J.P. Mali ha importato biciclette e parti di biciclette acquistate da società con sede a Taiwan. Il suo rappresentante doganale, ai fini dell’immissione in libera pratica di tali merci, ha presentato dichiarazioni in dogana, dichiarando che dette merci erano originarie di Taiwan.

L’autorità doganale ungherese accertava che le biciclette e le parti di biciclette importate provenivano, in realtà, dalla Cina, cosicché la loro importazione avrebbe dovuto dar luogo alla riscossione di un dazio antidumping. Di conseguenza, tale autorità chiedeva alla J.P. Mali il pagamento di una somma di HUF 26 077 000 (circa EUR 70 000) a titolo di obbligazione doganale, che veniva versata dal rappresentante doganale di tale società.

Sulla base di elementi raccolti in occasione di un controllo a posteriori effettuato presso la J.P. Mali, l’autorità doganale riteneva inoltre che tale società, in quanto parte contraente della transazione, avrebbe dovuto avere informazioni sulle circostanze dell’acquisto delle merci interessate. Il verbale di ispezione si basava, in particolare, su una relazione dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) da cui risultava che la società stabilita a Taiwan registrata come esportatrice di tali merci era coinvolta in false dichiarazioni sull’origine di parti di biciclette cinesi.

Ritenendo che la J.P. Mali avesse commesso l’infrazione di cui all’articolo 84, paragrafo 1, lettera a), e paragrafo 2, lettera a), aa), della legge doganale ungherese (errata dichiarazione dei dati), l’autorità doganale di primo grado le infliggeva, conformemente al paragrafo 8 di tale articolo, un’ammenda amministrativa doganale pari a HUF 13 039 000 (circa EUR  35 000).

La J.P. Mali decideva di impugnare la sanzione dinanzi l’autorità giudiziaria, sostenendo che l’ammenda, che è una somma forfettaria pari al 50% della perdita di entrate provenienti dai dazi doganali, fosse sproporzionata rispetto alla gravità dell’infrazione.

La J.P. Mali osservava che gli importatori dispongono soltanto di informazioni limitate sulla produzione e l’origine delle merci e che dipendono, a tale riguardo, dai dati forniti dagli esportatori. Essa precisava che, nel caso di specie, un organismo pubblico indipendente, la camera di commercio di Taiwan, le aveva rilasciato certificati che confermavano le indicazioni degli esportatori quanto all’origine delle merci interessate. Essa riteneva che la normativa ungherese, non consentendo di tener conto di simili circostanze e imponendo una pesante sanzione pecuniaria all’importatore in caso di violazione della normativa doganale anche se tale violazione non gli è imputabile, fosse contraria al diritto dell’Unione, e in particolare alle disposizioni del regolamento n. 952/2013 in materia di sanzioni.

Dubitando della compatibilità della sanzione prevista all’articolo 84, paragrafo 8, della legge doganale ungherese con il requisito di proporzionalità di cui all’articolo 42, paragrafo 1, del regolamento n. 952/2013, il Giudice adito decideva di investire la Corte di Giustizia di una questione pregiudiziale al riguardo, evidenziando che la norma sanzionatoria non consentiva di verificare l’esistenza di una condotta imputabile all’operatore interessato e impediva quindi di esaminare se quest’ultimo avesse adottato tutte le misure utili che ci si poteva aspettare da lui per evitare la violazione che ha dato luogo alla perdita di entrate provenienti dai dazi doganali.

Inoltre, la sanzione prevista all’articolo 84, paragrafo 8, della legge doganale appariva sproporzionata, poichè gli esportatori e la camera di commercio di Taiwan avevano indicato che le merci in questione provenivano da Taiwan, mentre la vera origine delle merci era stata rivelata solo da una relazione dell’OLAF ricevuta dopo la dichiarazione in dogana.

Nel rispondere nel senso di cui alla massima, la Corte eurounionale ha anzitutto rilevato l’articolo 15 del regolamento n. 952/2013 obbliga chiunque intervenga direttamente o indirettamente nell’espletamento delle formalità doganali a fornire informazioni accurate e complete nella dichiarazione in dogana.

L’inosservanza di tale obbligo costituisce una “violazione della normativa doganale”, ai sensi dell’articolo 42, paragrafo 1, di tale regolamento. Infatti, questo concetto non si riferisce esclusivamente alle attività fraudolente, ma comprende qualsiasi inosservanza della normativa doganale dell’Unione, indipendentemente dal fatto che l’inosservanza sia stata intenzionale o commessa per negligenza o, ancora, non vi sia stata condotta illecita dell’operatore interessato.

Per quanto riguarda le conseguenze di una siffatta inosservanza, spetta a ciascuno Stato membro prevedere, conformemente all’articolo 42, paragrafo 1, di detto regolamento, sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, in particolare, in caso di comunicazione di informazioni inesatte in una dichiarazione in dogana, ivi comprese le ipotesi caratterizzate dalla buona fede dell’importatore, essendosi questi fidato delle attestazioni ufficiali rilasciate in un paese o territorio non facente parte del territorio doganale dell’Unione.

Una sanzione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, consistente in un’ammenda amministrativa pari al 50% della perdita di entrate provenienti dai dazi doganali causata dalle informazioni inaccurate fornite, può essere considerata effettiva e dissuasiva, ai sensi dell’articolo 42, paragrafo 1, del regolamento n. 952/2013. Infatti, una sanzione del genere può incoraggiare gli operatori economici dell’Unione ad adottare tutte le misure necessarie per garantire la correttezza delle informazioni sulle merci che importano e l’accuratezza e la completezza delle informazioni fornite nelle dichiarazioni in dogana. In questo modo contribuisce a raggiungere l’obiettivo, indicato al considerando 9 di tale regolamento, di garantire l’applicazione delle misure tariffarie e delle altre misure di politica comune relative agli scambi di merci tra l’Unione e i Paesi o territori non facenti parte del suo territorio doganale.

Per quanto riguarda la proporzionalità della sanzione di cui trattasi, la Corte ha ricordato che, in mancanza di armonizzazione della normativa dell’Unione in materia di sanzioni applicabili in caso di inosservanza delle condizioni previste da un regime istituito da tale normativa, gli Stati membri possono scegliere le sanzioni che sembrano loro appropriate. Essi sono tuttavia tenuti ad esercitare la loro competenza nel rispetto del diritto dell’Unione e dei suoi principi generali e, di conseguenza, nel rispetto del principio di proporzionalità. In virtù di tale principio, le misure amministrative o repressive non devono eccedere i limiti di ciò che è necessario al conseguimento degli scopi legittimamente perseguiti da tale normativa né essere sproporzionate rispetto ai medesimi scopi.

Detto principio si impone agli Stati membri non solamente per quanto concerne la determinazione degli elementi costitutivi di un’infrazione e delle norme relative all’importo delle sanzioni pecuniarie, ma anche riguardo alla valutazione degli elementi di cui si può tenere conto per la fissazione dell’importo della sanzione.

Nel caso di specie, risulta che il legislatore ungherese ha introdotto un regime sanzionatorio in caso di violazione della normativa doganale che prevede un’ammenda amministrativa il cui importo è direttamente proporzionale all’importo della perdita di entrate provenienti dai dazi doganali causata dalla violazione.

Infatti, poiché l’ammenda amministrativa prevista da tale regime è, in linea di principio, pari al 50% di tale perdita di entrate, l’importo dell’ammenda è tanto più elevato quanto maggiore è la perdita di entrate, derivante, ad esempio, dall’indicazione inesatta del paese o del territorio di origine delle merci. Al contrario, l’importo dell’ammenda è tanto più ridotto quanto la stessa perdita di entrate è modesta. Inoltre, quando la perdita di entrate è trascurabile, ciò può dar luogo a un’esenzione.

Tale aliquota del 50% non appare, del resto, eccessiva rispetto all’importanza dell’obiettivo perseguito dalla normativa doganale dell’Unione.

Una normativa come quella di cui trattasi consente, peraltro, di tenere in significativa considerazione la condotta dell’operatore interessato, in particolare, portando l’aliquota dell’ammenda al 200% dell’obbligo di pagamento dei dazi e degli altri oneri in caso di attività fraudolenta e riducendo l’aliquota dell’ammenda al 25% della perdita di entrate provenienti dai dazi doganali se tale operatore agisce in buona fede e chiede, tra l’inizio del controllo a posteriori e il rilascio della relazione contenente i risultati di tale controllo, la modifica della dichiarazione in dogana, fornendo le informazioni corrette.

Nel settore dei dazi doganali, siffatte modalità consentono di garantire il rispetto del principio di proporzionalità. In particolare, conformemente a quanto enunciato al considerando 38 del regolamento n. 952/2013, esse distinguono adeguatamente i casi in cui l’operatore interessato è in buona fede da quelli in cui non lo è.

Già partner per oltre 12 anni in altro prestigioso studio legale tributario italiano, si occupa di diritto doganale e delle accise e di IVA, fornendo consulenza alle imprese ed assistenza innanzi alle autorità giudiziarie italiane e dell’Unione europea in caso di contenziosi.
E’ docente in corsi di formazione in materia doganale e processuale tributaria e dal 2008 al 2016 ha insegnato, quale aggiunto della materia “Legislazione e servizi in materia di dogane”, presso l’Accademia della Guardia di Finanza. Già docente a contratto di “Diritto doganale” presso alcune Università italiane, è autore di articoli, note a sentenze e monografie.