La Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) è l’istituzione dell’Ue preposta a garantire che tutti gli Stati membri osservino correttamente quanto stabilito nei Trattati fondativi. Venne istituita nel 1951, congiuntamente alla nascita della Comunità europea, e la sede sua ufficiale è in Lussemburgo. Essa è l’organo giurisdizionale dell’Ue, interpreta il diritto comunitario e dirime le controversie giuridiche che sorgono tra i governi nazionali e le istituzioni europee.

La Corte ha essenzialmente tre funzioni. In primo luogo, essa giudica sui ricorsi per la violazione dei Trattati comunitari, proposti dalla Commissione europea o da uno Stato membro. In secondo luogo, essa effettua il controllo di legittimità sugli atti normativi adottati dalle istituzioni dell’UE. Infine, essa ha competenza in tema di “questioni pregiudiziali” sollevate dai giudici nazionali degli Stati membri. Il rinvio pregiudiziale dà al giudice nazionale facoltà di chiedere alla Corte una pronuncia sull’interpretazione o sulla validità di una norma comunitaria, quando siffatta pronuncia sia necessaria per risolvere la controversia di cui il giudice nazionale è investito.

Il valore delle sentenze della Corte è cogente, vincolante, come ripetutamente stabilito anche dalla Corte costituzionale che, nell’applicare il diritto dell’Unione così come interpretato dalla Corte di giustizia, si esprime in termini di «efficacia diretta» o di «immediata operatività». Si ricordi Corte costituzionale n. 284 del 2007: «Le statuizioni della Corte di giustizia delle Comunità europee hanno, al pari delle norme dell’Unione direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni»; ancora, nella sentenza n. 227 del 2010, la Consulta ribadisce che: «Le sentenze della Corte di giustizia vincolano il giudice nazionale all’interpretazione da essa fornita, sia in sede di rinvio pregiudiziale, che in sede di procedura d’infrazione».

Dal canto suo, anche la nostra Corte di Cassazione ha sempre più spesso riconosciuto “valore normativo” (così, testualmente, Cass. 30 dicembre 2003, n. 19842) alle sentenze della Corte europea.

Ebbene, questo tipo di terminologia, a ben vedere, è la stessa che la nostra giurisprudenza utilizza per riconoscere l’efficacia diretta e il primato alle fonti legislative dell’Unione (trattati, regolamenti e direttive). Si entra dunque in una logica analoga a quella appartenente ai Paesi di Common Law, ove l’impianto normativo è costituito più dai precedenti giurisprudenziali che dai codici.

Come sappiamo, in linea generale, una sentenza non può essere mai direttamente e generalmente applicabile, in quanto costituisce una decisione resa rispetto ad un “caso concreto”: l’enucleazione di una regola o di un principio non può mai prescindere dalla esatta individuazione del caso che ne è all’origine. Non è così per le pronunce della CGUE, che hanno efficacia retroattiva e valore erga omnes: ciò in quanto ad esse si affida, più che una semplice statuizione sul caso concreto, una interpretazione autentica del diritto dell’Unione: poiché la Corte precisa e chiarisce l’esatto significato e la portata della norma sovranazionale, quale avrebbe dovuto essere intesa o applicata sin dal momento della sua entrata in vigore, la sentenza assume valore generale – svicolato, cioè, dal caso concreto – e produce i suoi effetti ex tunc (v’è da dire che la giustizia comunitaria ha comunque sempre riconosciuto una particolare tutela ai cosiddetti “rapporti esauriti”, ossia quelli già passati in giudicato ovvero definitivi per lo spirare del termine di decadenza o di prescrizione).

Le sentenze della Corte sono definitive e soggette a revisione solo in casi eccezionali: hanno efficacia vincolante per le parti in causa e forza esecutiva negli Stati membri ex art. 256 TCE.

Dalla portata generale delle pronunce della CGUE e dal valore cogente che esse hanno, quali garanti dell’interpretazione autentica del diritto unionale, discende un preciso obbligo, per il giudice nazionale, di interpretazione conforme delle leggi nazionali e di disapplicazione delle norme in disaccordo con le statuizioni della Corte. D’altra parte, è noto che il rifiuto, per una giurisdizione nazionale, di tener conto di una sentenza pregiudiziale della Corte, comporta l’apertura di una procedura d’infrazione, andando a sfociare nel ricorso di inadempimento stabilito dall’art. 258 TFUE.

La stessa CGU (ved. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=LEGISSUM:I14552), richiamandosi all’Art 267 TFUE ed all’art. 19 Trattato UE, detta le linee di condotta per i giudici nazionali che abbiano richiesto una pronuncia pregiudiziale, specificando che il proprio intervento “è utile quando in una causa dinanzi a un giudice nazionale si presenta una questione in materia di interpretazione che ha carattere di novità ed è di interesse generale per l’applicazione del diritto dell’Unione o quando la giurisprudenza esistente non sembra fornire gli orientamenti necessari per affrontare una nuova situazione giuridica”. E’ chiaro già da qui che la Corte si riconosce non come mero interprete di un diritto già esistente, o come organo che si limiti a fornire un orientamento che abbia il carattere di consiglio, ma come soggetto attivamente partecipante alla formazione del diritto in tutti quei casi in cui sussista un vuoto normativo o un’incertezza sull’esatto significato della legge. D’altra parte, se vi fossero dubbi in merito a tale aspetto, essi sarebbero fugati dalla locuzione che segue: <<Le pronunce pregiudiziali sono vincolanti sia per il giudice del rinvio sia per tutti i giudici degli Stati membri>> (vedasi, sempre, il sito della CGUE al link indicato): è la Corte stessa a rimarcare il valore assolutamente cogente delle proprie statuizioni, per tutti i tribunali siti sul territorio dell’Unione, non solo per il giudice del caso concreto.

Non solo. Il “valore di legge” delle suddette pronunce comporta l’invocabilità di esse da parte dei singoli non solo dinanzi ai giudici nazionali, ma anche alle autorità amministrative, compresi gli enti territoriali, a loro volta gravati di un onere di disapplicazione diretta delle norme nazioni non conformi, senza attendere una pronuncia giurisdizionale nazionale. Tale ultimo dovere è deducibile dalla circostanza che segue: è noto che i singoli cittadini possano adire il tribunale nazionale, onde ottenere la censura delle disposizioni della P.A. che si pongano in contrasto con la normativa unionale. Posto il valore cogente delle pronunce della Corte, ossia il loro essere a tutti gli effetti fonti del diritto sovranazionale, allo stesso modo delle norme propriamente dette (regolamenti, direttive), come si può pensare che gli enti pubblici non siano tenuti a direttamente disapplicare una disposizione nazionale in contrasto con esse, se ai cittadini viene concesso di ricorrere al giudice quando la norma nazionale contrastante viene invece applicata?

In caso contrario, se cioè l’amministrazione nazionale si ostinasse ad operare in senso conforme alle disposizioni ordinarie confliggenti con la normativa unionale (e dunque anche con una sentenza della CGUE, che di detta normativa dà l’interpretazione autentica, con effetti erga omnes), verosimilmente il Paese membro potrebbe incorrere nel procedimento d’infrazione previsto dall’art. 258 TFUE, ed essere sanzionato.

Vero è che non appare sufficiente affidare alle circolari amministrative la questione dell’incompatibilità della legge statale con quella europea: occorrerà sempre procedere all’abrogazione della disposizione confliggente, in nome della tutela del cittadino relativamente alla certezza del diritto. Tuttavia, facendo l’ipotesi di un caso concreto che si presentasse ad un organo amministrativo nel lasso temporale intercorrente tra la pronuncia della sentenza unionale e l’intervento abrogativo dello Stato, è imprescindibile che l’ente provveda alla disapplicazione diretta ed autonoma della legge nazionale non conforme alla statuizione della Corte.

Posta dunque l’inequivocabile opponibilità agli organi della P.A., le pronunce della Corte assumono valore cogente anche in dogana: l’agenzia delle dogane e dei monopoli è un ente pubblico.

Ed infatti, è lo stesso ente che, in qualche modo, riconosce la necessità di seguire gli orientamenti dettati dalla CGUE, nei casi caratterizzati da una certa complessità nell’individuazione del codice di nomenclatura combinata delle merci: sul sito dell’Agenzia è, infatti, presente una specifica sezione, ad uso degli operatori di dogana, così denominata: “Sentenze emesse dalla corte di giustizia della comunità Europea che hanno un particolare impatto al fine dell’esatta individuazione del codice di nomenclatura combinata per talune merci di complessa classificazione nonché della corretta applicazione della normativa generale relativa alla validità e al rilascio delle informazioni tariffarie vincolanti”. Segue una sorta di banca dati, ove le sentenze sono ricercabili in base all’anno di emissione: vedasi il sito dell’Agenzia delle Dogane, al seguente link:  https://www.adm.gov.it/portale/dogane/operatore/classificazione-delle-merci/sentenze-corte-di-giustizia-classificazione-tariffaria).

Molte volte, infatti, la Corte è intervenuta in materia doganale, determinando, ad esempio, con esattezza il codice di nomenclatura combinata delle merci di complessa classificazione, o il valore delle royalties, o i parametri per la corretta applicazione della normativa generale relativa alla validità e al rilascio delle informazioni; e non ultimo in materia di sanzioni.

Se l’Agenzia delle Dogane fa esplicito riferimento solo al settore relativo alla classificazione delle merci, ciò non significa che il valore cogente delle pronunce pregiudiziali della Corte non sia implicitamente riconosciuto anche in altri settori, se non per altro, quanto meno per un fattore, per così dire, “analogico”: per quale motivo, infatti, la pubblica amministrazione dovrebbe affermare la cogenza di una fonte normativa (tale è la pronuncia pregiudiziale) in un settore, e non in un altro? La ragione della sola menzione delle sentenze intervenute sulla classificazione delle merci è da ricercare, semplicemente, nel fatto che l’esatta individuazione del codice di nomenclatura combinata è una delle questioni più difficoltose e dibattute in dogana – soprattutto quando il caso è particolarmente complesso od il codice non è immediatamente identificabile; da ciò, l’utilità di una banca dati sul sito, che agevoli gli operatori del diritto in dogana e che possa sollevare le aziende di import-export dal rischio concreto di pesanti sanzioni, applicabili in caso di attribuzione di un codice erroneo.

Commissione contenzioso

Il Consiglio Nazionale degli Spedizionieri Doganali (di seguito CNSD) ha istituito, con propria delibera, le seguenti Commissioni di Studio del CNSD:

Commissione di Studio “Tariffa doganale e misure collegate alla TARIC”.
Commissione di Studio “Origine e lotta alla contraffazione”.
Commissione di Studio “Valore in dogana”.
Commissione di Studio “Regimi doganali e contenzioso”.

Le Commissioni sono istituite con le seguenti finalità:

Fornire attività di supporto tecnico ed operativo mediante lo studio e l’analisi della normativa di interesse per l’esercizio professionale.
Effettuare studi ed indagini in specifici settori oggetto dell’attività professionale.
Organizzare eventi seminariali e convegnistici.
Formulare proposte, documenti e pareri.
Produrre materiale utile all’aggiornamento professionale.
Agevolare la consapevolezza e la crescita professionale degli iscritti all’Albo.
Le Commissioni possono realizzare elaborati, pareri, trattazioni, opere comunque denominate da loro prodotte.