… a proposito di dazi …
Roma è nata per esigenze doganali: il Campidoglio, primo nucleo abitato, dominava l’Isola Tiberina che rappresentava il guado più agevole per il superamento del Tevere da parte dei mercanti nord-sud; questa linea di traffico si incrociava con i battelli che risalivano il Tevere. Quale luogo migliore per fondare una dogana e, quindi, una città?
A Roma per lunghi secoli non vi fu un dazio cittadino, perché non esisteva una cassa speciale della città, ma un unico “aerarium” per tutto lo Stato. In età imperiale, quando Roma cominciò a distinguere i suoi interessi particolari da quelli generali dello Stato, si creò una cassa speciale affidata al Senato ed il dazio rappresentava la sua entrata. Scarse ne sono le tracce superstiti, le più sicure sono quelle di un’iscrizione in tre esemplari, di cui due sulla via Salaria ed uno sulla via Flaminia, che paiono i segnali limiti di una cinta daziaria.
Tanto i dazi doganali quanto quelli interni, secondo il sistema universalmente in uso in quei tempi, erano dati in appalto a pubblicani (procuratores), appartenenti all’ordine equestre, che ne curavano a loro rischio e pericolo l’esazione.
I pubblicani non godevano di buona fama e di tale cattiva opinione vi sono due autorevoli testimonianze: la prima è nei Vangeli (Matteo 9, 9-13; 12, 9-14 e Marco 2, 13 -22) e si riferisce al banchetto di Gesù con i pubblicani di Cafarnao; la seconda è ricavabile dal De Officiis di Cicerone quando elenca quella del pubblicano fra le professioni riprovevoli e che si attirano l’odio degli uomini “Primum improbantur ii quaestus, qui in odia hominum incurrunt, ut portitorum … ”.
A fronte di tale odio erano assicurate particolari guarentigie: Diogene Laerzio ci fa sapere che i reati di violenza contro i pubblicani erano puniti con la vendita come schiavi del reo e della sua famiglia.
Lo stesso Cicerone, durante il suo consolato, si servì dei funzionari della dogana di Pozzuoli ordinando loro di sequestrare tutto l’oro e l’argento che si tentasse di esportare dall’Italia.
Tali disposizioni erano state date in forza della Lex Gabinia del 67 a.C., che proibiva ai provinciali di venire in Roma a fornirsi di denaro contante.
Ai tempi della Repubblica non vi era un sistema doganale uniforme per tutti i territori costituenti il mondo romano, né vi era, quindi, un’amministrazione doganale centralizzata. I dazi più importanti erano quelli che si riscuotevano nei porti di mare; più limitati erano quelli che si pagavano ai confini di terraferma.
Ogni città, nei suoi porti e nel suo territorio, riscuoteva liberamente i dazi su tutte le merci importate ed esportate. Il confine dello Stato romano non era confine daziario: quest’ultimo non si estendeva oltre il distretto dei cittadini romani. Non esisteva pertanto un dazio universale dello Stato. I Romani approvavano in generale le misure prese dalle città con le quali, qualora fossero federate di Roma, lo Stato romano pattuiva la assoluta libertà di commercio con pubblici trattati, che stabilivano per i cittadini romani considerevoli facilitazioni daziarie.
Nei distretti non federali, che si trovavano in condizione di vera sudditanza e non avevano ottenuto nemmeno l’immunità, i dazi, come ben si comprende, erano devoluti al vero sovrano, vale a dire alla Repubblica romana; di conseguenza, singoli territori di maggiore estensione furono costituiti entro i confini dello Stato quali speciali distretti daziari romani, nei quali erano comprese ed esentate dal pagamento del dazio romano, le città ammesse nella lega, o alle quali era stata concessa l’esenzione. Così la Sicilia formava, fin dai tempi di Cartagine, un proprio distretto daziario, sui confini del quale si riscuoteva un dazio del 5% del valore su tutte le merci che entravano e uscivano; così ai confini dell’Asia, in forza della legge Sempronia, veniva prelevato un analogo dazio del 2,5%; anche la provincia Narbonese fu organizzata come distretto daziario romano eccettuato il territorio della colonia romana.
Oltre agli scopi fiscali queste misure miravano anche, giustamente, a porre, con un regolamento confinario comune, un argine alla confusione che doveva determinarsi inevitabilmente per la gran diversità dei dazi comunali. La riscossione di questi dazi era, senza eccezione, appaltata ad un imprenditore.
Per l’Egitto romano vi è da segnalare l’esistenza di un dazio doganale testimoniato da numerose fonti e, soprattutto, da ricevute di pagamenti avvenuti alle porte di Soknopaio Neso, di Filadelfia, di Karanis e di altri luoghi della provincia dell’ Arsinoite 7, nel II e III sec. d.C..
I papiri d’Egitto ci attestano la presenza anche nel 201 a.C. di un dazio doganale nella Licia a vantaggio, forse, dell’Egitto.
Una completa riorganizzazione del sistema doganale fu effettuata sotto l’Impero per dare una maggiore omogeneità al complesso amministrativo.
Con l’imperatore Claudio cominciarono a confluire nel fisco tutti i dazi (portoria), anche se provenienti dalle province senatorie; la fase di attribuzione al fisco di tutti i proventi doganali fu completata sotto Vespasiano, figlio di un pubblicano, vale a dire un doganale.
Una delle più importanti riforme in campo doganale realizzate nel periodo dell’Impero, fu la graduale eliminazione degli appaltatori dei dazi. Sotto Tiberio fu tolta loro la percezione delle imposte dirette e sotto Claudio si iniziò a limitare ed a controllare la loro partecipazione nei dazi doganali e comunali e si diede inizio all’amministrazione diretta dello Stato. A tale periodo può farsi risalire la nascita di un corpo di funzionari doganali al servizio dell’Impero Romano.
Ad imitazione del termine greco con il quale erano designati i gabellieri, anche in Roma essi furono chiamati “telonari” (esattori della “telonia”), nome con il quale erano però designati anche i banchieri e ciò, si presume, per le strette connessioni che esistevano fra le due attività, in quanto i prodotti delle gabelle servivano sovente a garantire i prestiti ricevuti dallo Stato da banchieri privati.
Furono create dieci circoscrizioni doganali, oltre l’Italia: per passare dall’una all’altra, le merci pagavano dazi, il cui ammontare variava a seconda delle regioni e, probabilmente, anche delle merci.
Le circoscrizioni doganali dell’impero erano: Sicilia, Gallie, Spagna, Britannia, lliiria, Asia, Bitinia, Ponto e Paflagonia, tutte e tre queste ultime riunite in un solo distretto, Siria, Egitto, Nord Africa. In conseguenza di quest’organizzazione doganale, i portori e i pedaggi gravavano in misura assai elevata sulle merci provenienti da paesi lontani. La politica doganale romana però nel suo insieme non fu rigida.
Lo scrittore Marziale racconta un fatto accaduto sotto l’imperatore Domiziano, che, per procurarsi i fondi per provvedere alla ricostruzione ed all’abbellimento di Roma, dopo le distruzioni provocate dall’incendio avvenuto nell’anno 80 d.C., tassò pesantemente gli ebrei, solo perché costituivano una categoria particolarmente abbiente.
Questi, avvantaggiati dal fatto che esercitando per lo più il commercio non avevano necessità di dimorare a lungo nella stessa località, al fine di sfuggire alla tassazione, cambiavano frequentemente residenza in modo da sfuggire al riconoscimento ed alla schedatura nei registri fiscali. Tuttavia non potevano nascondere, se controllati, la circoncisione comandata dalla loro religione, per cui i gabellieri alle porte delle città, ogni qualvolta transitava una persona sospetta o non conosciuta, effettuavano un controllo specifico e potevano facilmente scoprire se doveva essere sottoposta a tassazione. Per tale episodio Marziale ebbe a dire che gli ebrei avevano la “mentula damnata tributis”.
Le merci trasportate da una circoscrizione doganale all’altra dell’Impero, dovevano pagare molte imposte, il loro insieme formava quello che era chiamato il “portorium”.
Esso corrispondeva a tre tipi d’imposte e tasse moderne:
- il dazio doganale, corrisposto alla frontiera dello Stato o circoscrizione, che era versato alle casse imperiali;
- il dazio interno, corrisposto sulle merci da introdursi o esportarsi da una città e riscosso per conto della stessa;
- il pedaggio, vale a dire la tassa incassata per l’uso di una certa infrastruttura, porto, strada, ponte.
I Romani non hanno mai posseduto termini chiari, che differenziassero queste diverse forme di tributi; la sola distinzione è quella tra portorium terrestre e marittimo, secondo dove era incassato.
I diritti variavano percentualmente da regione a regione, dal 2% in Spagna al 5% in Sicilia, in Africa e nell’Illiria.
I dazi doganali percepiti nella circoscrizione delle Gallie ammontavano al 2,5% – quadragesima Galliarum – ed erano percepiti ai limiti delle Tre Gallie – Lugdunense, Aquitania, Belgica – mentre la Gallia Narbonense costituì per lungo tempo un distretto doganale a sé. Nel distretto dell’Illirico, comprendente anche Norico, Mesia, Pannonia, era percepita una quadragesima – portorium Illyrici – così come una quadragesima era riscossa nella circoscrizione d’Asia e in quelle di Bitinia, Paflagonia e Ponto.
L’Egitto era diviso in parecchi distretti doganali, in questa circoscrizione erano riscossi i dazi sulle merci provenienti dall’Arabia, pari al 25% del va-lore delle merci. Soltanto nel IV secolo si giunse ad un’unificazione dei dazi nella misura del 12%, che, confrontata con il 2,5% prevalente dei primi secoli, può dare un interessante indizio delle difficoltà frapposte al libero scambio nel Basso Impero.
Per i dazi interni, vi sono notizie soprattutto per quelli esistenti nella città di Palmira. Quanto ai pedaggi, se ne può solo affermare l’esistenza, senza che sia possibile determinare i particolari della loro ripartizione ed organizzazione.
Queste diverse tasse, percepite durante il tragitto delle merci sino alla loro destinazione finale, ne aumentavano notevolmente il prezzo; Plinio il Vecchio afferma che i prodotti originari dell’India si vendevano, una volta arrivati a destinazione, ad un prezzo centuplicato rispetto al valore iniziale.
È facile da ciò desumere che l’incasso del portorium aveva un’importanza notevole per le finanze statali. Sotto Augusto l’ “aerarium” militare, che serviva per il mantenimento dell’esercito, era alimentato dalle “vigesime”, il cui prodotto fu chiamato “aurum vigesimarium”. Sotto Tiberio i “vectigalia” e i “portoria” alimentavano anche il tesoro privato dell’Imperatore, chiamato “Caesaris fiscus”.
Tratto da:
“La Dogana nella storia” profili storici di politica doganale e commerciale in Europa e nel mondo.